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L'Ospedale di Santa Venera al Pozzo |
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L’autore che, in passato, più diffusamente ci documenta su Santa Venera è l’Anselmo Grassi.[3] Il cappuccino, in pieno Seicento, tenta di unificare le credenze popolari che sulla Santa circolavano nel tentativo di riferirle ad una unitaria matrice religiosa, peraltro caratterizzata da accesi toni campanilistici ed agiografici.
E’ infatti, a suo dire, Venera che abita presso le terme dove fonda un ospedale, e successivamente:
“ perchè più facilmente guarissero dei loro mali ed infermità si crede d’aver (S. Venera) dalla pietà di Dio impetrato che quivi mìraculosamente- scaturisse un fonte o pozzo d'acqua solfurea per uso dei bagni aggionti all'istess'ospedale, in forma di due stanzette a. volta, una per gli uomini, e l'altra per le donne, quali stanzette tuttavia in piede, col Pozzo vicino alle ruine del dett’ Ospedale, fino al presente vi sono “.
Ed ancora:
"Sonovi vicine allo Spedale di S.Venera due stantiole a volta che tutte intere si veggono, benchè alquanto guaste nel di dentro":
E dopo il suo martirio
“Gli acitani dopo la Morte di S. Venera “non furono lenti a rizzarle un divotissimo tempio nel luogo, che si framezza tra le rovine del suo Ospedale, e del sudetto Pozzo cue in piè si vidde sin all’anno 1600.”
In questo contesto le virtù terapeutiche dell’acqua vengono spiegate con gli interventi miracolosi che la Santa, dopo il suo martirio, continua ad operare, sia con le mutazioni in rosso dell’acqua, che prontamente la credenza popolare interpreta come sangue, sia con ”le celesti apparizioni del capo della Santa”, che si dice essere stato gettato, chissà perché, nel pozzo.
Come si può osservare si opera un capovolgimento della serie temporale peraltro legata da relazioni di causa effetto: acque - pozzo - ospedale - chiesa, a favore di una serie temporale palesemente destinata a rafforzare i toni encomiastici e agiografici sulla Santa: divinità - ospedale - acque - pozzo - chiesa.
Per reazione la storiografia locale moderna, facendo di tutto un fascio, ha catalogato le notizie riportate dal frate come credenza popolare, non occupandosi minimamente di dividere le informazioni che alla storia appartengono da quelle che solo alla leggenda sono da ascrivere.[4]
In effetti il buon Cappuccino, che, se non come storico, almeno come cronista merita una rivalutazione, ci ha fornito considerevoli notizie sulla zona, dandoci la possibilità, mediante una attenta lettura, di sbrogliare la intricata matassa.
Egli infatti, per riferirsi solo all'ospedale, ci informa che le rovine dell’ospedale erano a lato del tempio dalla parte opposta del pozzo che, con altri riferimenti, ci dice essere collocato di fronte al prospetto principale del tempio “la porta maggiore come era prima in faccia del memorando pozzo”.
Nell'altro passo colloca lo stesso ospedale vicino ai resti delle antiche terme, da lui già in tal senso interpretate anche se anacronisticamente datate.
Sino a qui il Grassi che, se ci consente la localizzazione del supposto ospedale, non ci permette tuttavia di essere assolutamente certi della sua esistenza.
Un documento,[5] recentemente pubblicato, ci viene in soccorso dandoci la prova dell’esistenza dell’ospedale agli inizi del 1300 e fornendoci, pur nella sua brevità, interessanti notizie per la storia della località.
Il dominus Gambino il vecchio lega al monastero di San Benedetto di Catania un pezzo di terra. “Il Testamento era stato redatto il 10 aprile 1336, nell'ospedale Sancte Venere de Jacio, dal notaio Stefano de Mensuraca, alla presenza di numerosi testimoni, in defectum absencie iudicis qui non potuit interesse et in locis silvestribus presencia iudicis sic ad presens de facile habere non potuit....”
Un documento che permette al nostro ospedale di uscire dal'ambito delle credenze popolari e delle leggende, per collocarsi nella storia.
Ma com’era Aci o meglio Jaci in quel tempo ?
I primi decenni del 1300 vedono la prevalenza nel nostro territorio degli Alagona. Blasco il giovane, nominato da Federico III (1296-1337) gran Giustiziere, ne ebbe il dominio nel 1320 poi, per testamento di Re Federico III, che Blasco insieme ad altri era chiamato a far eseguire, il castello e la terra di Jaci vennero lasciate alla sua consorte Eleonora, con la clausola che alla morte di costei (1341) passassero al figlio quartogenito Giovanni.
Di fatto, gli Alagona mantennero il dominio sulla Terra di Jaci e sul suo castello per quasi tutto il 1300.
Tempi tristi per Aci: nel 1326 Beltrando del Balzo aveva messo a ferro e fuoco il territorio; nel 1329 una eruzione giunse fino al mare, inghiottendo parte del boscoso territorio; la guerra contro gli Angioini e contro la fazione dei Latini la esponeva a continui pericoli e traversie. Di li a poco (1348) la peste avrebbe imperversato falcidiando l’esigua popolazione.
Il bosco dominava il paesaggio vegetale del territorio: esso si diradava nella zona meridionale sino a diventare marginale nelle zone abitate ed in quelle già da tempo coltivate, infittendosi nella zona a nord-est del castello.
Alcune strade lo attraversavano in senso est-ovest: avevano la funzione di raccordare una viabilità collinare di epoca normanna con l’antico sistema viario romano localizzato sulla costa.
Una economia prevalentemente silvo-pastorale conviveva con la coltivazione degli ulivi, dei vigneti e, dove la disponibilità dell’acqua lo consentiva, con ortaggi e frutteti.
Il castello ed il contiguo borgo fortificato accoglievano la maggior parte della non numerosa popolazione. La zona a sud-ovest del castello (terreforti) asciutta e collinosa era coltivata ad ulivi mentre in alcuni piccoli insediamenti, ad ovest del Castello, e lungo le vie di grande comunicazione, i “vigneri di Aci” contendevano al bosco il terreno, estendendo verso nord la zona coltivata a vigneti.
Uno degli assi viari, probabilmente del periodo normanno, congiungeva la strada dei casali del bosco di Catania con il mare. Univa le attuali San G. La punta -Valverde - Aci San Filippo - Reitana - S.Venera al Pozzo a Capo Mulini e al mare.
In questo percorso esisteva già nella seconda metà del 1300 la chiesa di San Filippo de Carchina, poiché sappiamo che nel 1391 “il vescovo di Catania Simone (del Pozzo) investe il sacerdote Giovanni de Sacca (o Sciacca) del beneficio e rettorato della Chiesa di San Filippo de Carchina presso Aci, in sostituzione del defunto beneficiale e rettore Tommaso Chazeni”.[6]
Scendendo da San Filippo verso il mare si incontrava la zona di Reitana - Santa Venera, zona ricca, di proprietà di privilegiati. La disponibilità di acqua permetteva, oltre all'irrigazione degli ortaggi, di poter disporre di energia per i mulini: il “mazaimpedi”, il “curatolo”, ed altri tre di proprietà della Regia Corte,[7] che nel 1360 Federico IV avrebbe concesso per procurarsi simpatie e accoliti a sostegno del suo traballante regno.
La stessa acqua permetteva di irrigare i terreni limitrofi che Blasco Alagona prima e il figlio Artale dopo andavano man mano, con le buone o le cattive, accaparrandosi, sottraendoli a casate della nobiltà civica Catanese da loro dominata.[8]
Ricca la zona, che a lembi marginali ancora silvestri alternava case, vigneti, fondaci, taverne: assicuravano, quest’ultimi, il ristoro a viandanti che per scopi commerciali o religiosi percorrevano le disagiate mulattiere in direzione di Randazzo o di Messina.
In mezzo a questa ricca zona esisteva l’ospedale di Santa Venera.