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Le Barche dei Pingisanti. Le imbarcazioni tradizionali siciliane decorate "alla catanese"
Le foto di fine ottocento del porto di Catania, quando ancora il mare arrivava fin sotto gli archi della marina, ci mostrano centinaia di piccole barche – il naviglio minore – agli ormeggi pronte a salpare per una nuova battuta di pesca.
LE BARCHE DEI PINGISANTI. Le imbarcazioni tradizionali siciliane decorate “alla catanese”
Le foto di fine ottocento del porto di Catania, quando ancora il mare arrivava fin sotto gli archi della marina, ci mostrano centinaia di piccole barche – il naviglio minore – agli ormeggi pronte a salpare per una nuova battuta di pesca. Per il pescatore di quel tempo andare per mare, nella speranza di una pesca miracolosa, non era semplicemente una pratica lavorativa di sussistenza ma un bisogno antropologico ritualizzato dove il “padron” di barca, in genere il nonno, forte della sua esperienza di vita, ritto sulla “pedagna”, dava gli ordini con la stessa autorevolezza di chi impartisce disposizioni testamentarie.
Tipi di barche – Gli scafi erano funzionali al tipo di “mestiere” che si esercitava, pertanto veniva spontaneo e più immediato identificarli col nome del pesce catturato o dell’attrezzo utilizzato: “sardare”, “cozzolare”, “conzare”, “nassarole”, “fiocinare” erano le tipologie navali del Golfo di Catania le cui acque abbondavano di pesce. Queste barche erano tanto diverse dalle consorelle del resto della Sicilia, per la singolarità delle linee e, soprattutto, dei colori, che gli studiosi le hanno, scientemente, aggettivate “alla catanese”.
Il costruttore – Chi le costruiva era il “mastro d’ascia”, artigiano del legno di profondo ingegno e spiccato senso pratico, che applicava un’arcaica tecnica empirica detta del “mezzo garbo”, tramandata oralmente da padre in figlio. Il mezzo garbo era una sagoma di legno che riproduceva, a grandezza naturale, la mezza sezione maestra dello scafo dalla quale si principiava per realizzare le ordinate che, assieme alla chiglia e alle ruote di prua e di poppa, costituivano l’ossatura della barca. La lunghezza di questi piccoli natanti andava dai 19 palmi (1 palmo = 25 cm) per le “fiocinare”, le più piccole e manovriere, ai 40 palmi per le “sardare”, potremmo dire le ammiraglie concepite esclusivamente per la pesca del pesce azzurro con l’uso della “tratta” o menaide, un particolare tipo di rete pelagica derivante.
Il velaio – Gli spostamenti delle barche, non ancora motorizzate, avvenivano a remi e a vela. Il “mastro velaio” si faceva carico del taglio delle vele che cuciva a mano assemblando “ferzi” di cotone. La superficie veniva calcolata in relazione al fattore di potenza della barca ed in funzione delle possibili condizioni di vento. Erano grandi e leggere per le brezze, piccole e pesanti per il forte vento di burrasca. La forma era triangolare, alla “trina”, da cui “vela latina” la cui origine risale, quasi certamente, al periodo greco classico; furono gli arabi che la ripresero nel Medioevo e la diffusero dal “Mare Nostrum” fino all’Oceano Indiano, attraverso il Mar Rosso.
Il decoratore – La particolarità che rendeva inequivocabile l’attribuzione all’area catanese dei legni descritti era la presenza di decorazioni policrome che riempivano letteralmente ogni parte dello scafo, fuori e dentro, come mai si è verificato per altre barche del Mediterraneo (barche poco decorate le troviamo nell’area palermitana, in quella siracusana, a Malta, in Tunisia). Il decoro della barca potrebbe essere stato, per la presenza di motivi comuni, figlio del decoro del carretto siciliano la cui tecnica si diffonde a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Attraverso la veste decorativa veniva espresso il significato del rapporto ancestrale fra l’uomo ed il mare: il pescatore si voleva presentare al cospetto del mare dando il meglio di sé, offrendo una cosa bella come una “zita” – sposa in dialetto siciliano – nella speranza di avere in cambio prodigalità e provvidenze. Il decoro seguiva canoni ben precisi; realizzato da pittori di professione, i “pingisanti”, si rifaceva ai motivi dell’arte siciliana stratificatasi nel corso dei millenni ad opera delle colonizzazioni più generose come la greca, la romana, l’araba, la normanna. I mosaici della Villa del Casale a Piazza Armerina e quelli del Palazzo dei Normanni a Palermo ne sono la prova. A Catania, per quello che ci è dato
sapere dai racconti di memoria dei vecchi pescatori, hanno operato, fino agli anni ’50 del secolo scorso, Cosimo Bonaccorsi e il figlio Tino, pittori naif che hanno lasciato una vera e propria impronta di stile attraverso la creazione di un corpus di giustapposte decorazioni e figurazioni ispirate al sacro ed al profano. La tecnica decorativa era preceduta dalla sapiente preparazione dei colori ottenuti dalla mescolanza alchemica di terre naturali con olio di lino cotto: essenziali erano l’arancio vivo, il giallo oro, l’azzurro mare, il verde prato. Si partiva, quindi, con la “campitura”, ossia la predisposizione dei fondi che essenzialmente erano di colore bianco e giallo contornati da linee di arancio. A questo punto, per sovrapposizione di colori, il pingisanto passava alla “decorazione” dell’impavesata, per tutta la lunghezza della barca da prua a poppa, creando una serrata alternanza di arabeschi con motivi geometrici – rette parallele, trapezi, semicerchi, triangoli – e floreali. Completati i decori della parte interna – molto accattivanti erano quelli del tamburetto, i cosiddetti “visuliddi” copiati dai pittori di carretto – si procedeva con la “figurazione”, ossia la creazione di icone simboliche che, per consuetudine, occupavano sempre gli stessi settori. Così, sui masconi prodieri veniva pitturata la sirena simbolo omerico del mare bello e insidioso, su quelli poppieri il paniere sormontato da un festone di fiori e foglie, sulle fiancate due linee sinusoidali speculari contrappuntate da foglie, sul dritto di poppa la palma d’ulivo o la spiga di grano, sul dritto di prua l’immancabile occhio apotropaico che aveva anche la funzione di elevare la barca a rango di persona umana (tutt’ora in Grecia si vuole credere che l’occhio abbia il potere di allontanare il male e per questo motivo viene tenuto in casa come amuleto vitreo vicino ad un’icona sacra). Sulla terminazione del dritto prodiero, dalla tipica sagoma a collo di cigno o a cariatide, veniva raffigurato il Santo protettore: San Francesco di Paola per le sardare e le conzare della marina di Catania, quartiere della Civita; la Madonna dell’Ognina per le conzare dell’omonimo borgo, alla periferia nord di Catania; San Giovanni Battista per le sardare di Acitrezza, il paese dei Malavoglia; la Madonna della Scala per le fiocinare del borgo di S. Maria La Scala, ai piedi della “timpa” di Acireale. L’effetto estetico era a dir poco spettacolare; guardando queste maestose barche a vela latina nel loro insieme, nel rispetto della regola del tutto per la parte, si aveva un inspiegabile appagamento del senso della vista, si provava un’intima sensazione di armonia e serenità.
La fine di un’epoca – Le barche “alla catanese” finiscono di operare agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso per il sopraggiungere dei grossi e potenti motopescherecci. Con esse tramonta una civiltà marinara le cui radici affondano quanto meno nel periodo in cui, da parte delle popolazioni rivierasche, venne meno la paura delle incursioni dei pirati barbareschi nord-africani che avevano inibito, fino ai primi decenni del 1800, lo sviluppo alieutico degli “scari”, ossia le piccole cale ridossate, adatte sia per il ricovero delle barche che per il commercio di pesce e mercanzie di vario genere. Oggi rimane solamente un potenziale patrimonio culturale – materiale ed immateriale – da tutelare e valorizzare poiché solo la conoscenza della nostra identità di popolo di mare può creare i presupposti per la definizione di un programma di sviluppo del territorio che sia efficace e, allo stesso tempo, sostenibile per le future generazioni.
Per la ricostruzione dei decori, l’autore ringrazia Don Maccarrone, parroco del borgo di Santa Maria La Scala, per avere messo a disposizione le due preziose conzare costruite nel 1981, e Andrè e Silvia Leuba, per aver donato rarissime diapositive a colori della marina di Acitrezza scattate nella primavera del 1961.
Salvatore Finocchiaro
Salvatore Finocchiaro, originario del paese di Acitrezza (Catania), geologo e docente di scienze, è un estimatore di barche tradizionali siciliane con particolare riferimento alle piccole barche da pesca dell’area del Golfo di Catania. È proprietario di un gozzo tipo sardara “alla catanese” – di nome Venere – lungo 5,60 m, decorato a mano ed armato a vela latina, costruito nel 2006 a seguito di un’accurata ricerca filologica. È progettista, costruttore di modelli in scala e di pregiati half-model; si diletta a decorare barche alla maniera dei pingisanti; progetta vele latine in cotone. Ama fare regate veliche di piacere con barche tradizionali.