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La festa del Santo guerriero
Bionde le chiome inanellate, belle le sembianze aveva il giovane guerriero romano che la chiesa cattolica venera come «defensor fidei» e che per ordine di Diocleziano subì atroce martirio.
A San Sebastiano, il Santo che ha ispirato pittori celebri, e tutti lo hanno raffigurato di soavissime sembianze, è dedicata una delle più belle basiliche acesi e nel giorno della sua festa una folla fittissima accorre e si entusiasma e si commuove nella rievocazione del sacrificio eroico.
Ad epoca lontanissima rimonta il culto del Santo nella nostra città perché nelle antiche istorie leggiamo che gli venne dedicato un tempio votivo dopo la peste del 1466. Sorgeva questo tempio ove oggi c'è la chiesa dedicata a S. Antonio di Padova.
Il terremoto del 1693, che tanti danni arrecò alla città, lo distrusse e di esso rimane il solo portale in puro stile gotico che possiamo ancora ammirare. L'attuale basilica fu dedicata a S. Sebastiano nel 1644 e nel secolo successivo fu arricchita di opere d'arte, statue, prospetto, tele ed affreschi che sono di un valore artistico inestimabile. Concorsero le finanze comunali alla sua costruzione che fu iniziata nell'anno 1609 e dopo una sosta di alcuni anni, nel 1619, fu continuata con offerte di fedeli.
Nel 1644 il vastissimo tempio era ormai costruito. Nel 1693 subì i danni del terremoto e nel 1699, come dice l'epigrafe che si legge nell'interno di esso, venne restaurato. In quell'epoca non esisteva certo il superbo prospetto. In esso il barocco ormai risente del settecento. Gli angioli che reggono i festoni, l'armonia delle linee, la gradevole sveltezza del disegno formano un monumento architettonico che è il più bello della città, ammirato da quanti amano l'arte. La pietra ha preso ormai il colore del tempo, il giuoco dei chiaroscuri dimostra sempre attrattive nuove, il vestibolo adorno di dodici statue ne arricchisce il pregio.
La tradizione dice che queste statue furono eseguite sopra disegni di Paolo Vasta. Rappresentano esse figure bibliche e hanno nobiltà di concezione e movimento di forme. Le eseguì nel 1754 lo scultore Giambattista Marino quando già il nostro caposcuola aveva affrescato con le sue più belle concezioni l'interno della basilica. Anni di lotte e di battaglie quelli per il giovane Pier Paolo Vasta che portava nel cuore il ricordo dei capolavori che aveva ammirato e studiato in Roma, che sentiva l'orgoglio del suo ingegno e della sua mano felice. Lotte e liti contro pittori di scarto e relativi protettori che volevano privare le nostre chiese degli affreschi vasteschi, di quelle pitture ove tutto è luce, movimento, nobiltà di forma, delicatezza di colori, azzurro di grandiosi cieli.
L'artista era ormai maturo. Nelle sue concezioni traspare il suo animo sereno. Mai dipinse egli argomenti truci, e la tragedia e la morte, che a volte descrisse con il suo pennello miracoloso, sono addolcite da un sentimento di pietà e di giustizia. La vita di S. Sebastiano doveva esercitare suggestione profonda nell'animo del maestro acese. Sorpassati gli ostacoli, vinti i nemici, nel periodo di tempo che corre dal 1732 al 1736 egli cantò la vita eroica e la morte del guerriero romano in affreschi che sono forse i suoi capolavori.
Le pareti del coro prima del 1693 erano state decorate «dal vago pennello di un esimio pittore acitano» dice una antica cronaca. Il terremoto di quell'anno distrusse così l'opera di Baldassare Grasso, maestro di Paolo Vasta, che noi possiamo individuare sotto le parole del cronista. Ma l'allievo superò di gran lunga il maestro. Il primo martirio del Santo, trafitto dalle frecce, la scena in cui Santa Irene con le compagne pietose sciolgono il morente dall'albero, l'incontro del Santo risanato con Diocleziano, il martirio ultimo, sono dipinti con sì larga concezione, con tale ricchezza di figure, precisione di dettagli, con respiro così ampio, da poterli chiamare capolavori di un caposcuola. Il Santo che, ormai dimentico della vita terrena e dei dolori della tortura, volge gli occhi alla gloria dei cieli che gli angioli gli annunziano, è la rappresentazione della fede che trasumanando la carne dà ad essa tangibile segno della santità, che dona allo sguardo luce ultraterrena. Pallide ed esangui sono le membra abbandonate quando Egli è raccolto dalle pie donne, animoso ed ardito il gesto quando affronta l'imperatore.
Sopra l'altare maggiore è dipinta la scena dell'incontro con papa Caio e nella volta la gloria del paradiso ove il Santo ascende dopo la morte. Non queste poche parole scarne possono dare l'idea della magnificenza e del pregio delle pitture. Lo sguardo innamorato non si stanca di ammirare e lo spirito si eleva contemplando quegli angioli e quei putti, gli inarrivabili putti vasteschi, che eseguono il concerto paradisiaco o volano con candide ali nei cieli fatali del martirio. Lasciando per altra occasione la descrizione degli affreschi e delle tele pregevolissime, tutte di scuola acese, usciamo ad ammirare la magnifica porta centrale di ferro battuto eseguita sopra disegni dell'ing. Panebianco nel 1893, porta ove si possono ammirare accurati bassorilievi in bronzo.
Nè possiamo lasciar senza cenno il «tosello» che disegnò Giuseppe Sciuti e che Concetta Maugeri trapunse con ago paziente, tanto che tu non sai se sia ricamo oppure lavor di pennello. Basilica quindi che racchiude la storia artistica della nostra città, basilica dedicata al Santo che commosse artisti del colore e dello scalpello e che nelle folle solleva entusiasmi mistici. Caro ricordo degli anni lontani è quello della mite giornata di gennaio, sotto tiepido sole, quando la piazza e la chiesa sono un mare di folla. Nei balconi dei palazzi le signore della buona società acese portavano la nota policroma degli abiti di velluto, che allora si usavano.
Bei volti delicati di donne siciliane, gioielli, fasto della prima uscita di gala dopo il ritorno dalla campagna. A notte alta, la campana per un'ora aveva chiamato con suoni diversi le confraternite che la basilica ospitava. Operai di tutti i mestieri eran curvi sotto il ferculo pesante che veniva portato con rapidità impressionante a forza di spalle dalla chiesa nella piazza. Spari, suoni di bande, gridio di folla.
San Sebastiano iniziava il suo giro trionfale. Non c'è oggi il fasto di allora, gli abiti di gala e i gioielli di famiglia si sfoggiano ogni giorno. Ma la folla è sempre la stessa: lo stesso popolo si stringe sotto al ferculo antico sul quale la statua del Santo, fra le colonnine d'argento cesellato, ricorda la tragica vicenda di fede e di morte sotto l'impero di Roma, quando la religione nuova bagnava le arene di sangue e popolava le catacombe di vittime eroiche.
Nel fastoso seicento, come raccontano le cronache, la festa veniva celebrata con grandioso apparato coreografico e dava luogo a controversie e ripicchi fra la confraternita di S. Sebastiano e quella di S. Pietro. Dice il cronista che «il 18 gennaio 1633 Monsignor Massimo, attesi i dissidi e risse già avvenute nell'anno precedente per le vive gare e rivalità delle due Confraternite, ordinò che nelle due feste patronali del 20 e del 25 gennaio, sotto pena di interdetto delle due chiese, non si eseguissero le solite giostre «delli Gillij» o «bandiere» e nel maggio del 1636 «il vicario Dr. D. Antonino Grasso ordinò ai fratelli di S. Pietro, sotto pena di scomunica e multa di onze 50, di non portare nelle processioni predette stendardo rosso nè tamburi; ma di usare solamente il loro consueto stendardo di colore turchino, giacché lo stendardo rosso, preceduto dai tamburinai in principio della processione, apparteneva, di diritto consuetudinario, alla confraternita di S. Sebastiano».
Erano i tamburinieri vestiti di rosso con ricami d'argento; e «per più solennizzare detta festa fecero vestire una gran quantità di donne ammascarate (travestite) rappresentando la vita di S. Giustina, con fora anco doi compagnie di donne ad uso di soldati, con doi Capitani donne che sparavano, e doi Alfieri donne che giocavano di bandiera meglio degli uomini, e così anco le donne Capitani, nello sparare sparavano meglio delli homini». Nel 1648 due erano le compagnie di donne in costume «vestite da soldati con li soi archibugi, che allo sparare che faceva il suo Capitanio, sparavano tutte 24 con molta legiadria, politezza e sollecitudine nel parare e sparare ».
Negli anni seguenti, se le donne «ammascarate» usavano le armi «meglio assai di una soldatesca avvantaggiata in guerra» migliori attrattive aveva la festa, perchè «si recitao in detta chiesa la tragedia di S. Margherita ... nella quale tragedia vi foro li intermedii con la trasformatione della scena assai galante e sollecita». Non si fermarono qui le manifestazioni esuberanti di boria spagnolesca perché nel 1652 vi si aggiunse «la cavalcata di gala con il numero di 28 gentilhomini li quali fecero molti giochi di contisa (torneo) di Caruselli... e vi furo doi camelli che corsero il suo palio». Ricordi storici, ormai, chè l'epoca moderna è composta e misurata anche nelle manifestazioni di fede.
E' rimasta però «l'uscita» tradizionale, la corsa vertiginosa che porta il ferculo dal vestibolo della chiesa al centro della piazza. I devoti appartengono ad umile classe, che è la più ingenua e sincera. Abiti delle grandi occasioni, i piedi calzati di sole calze, fazzoletto di seta che stringe la testa, catena d'oro, vera o falsa, al panciotto. Quasi tutti hanno il «voto» di trainare il ferculo e quando gli anni gravano, lo seguono nel suo lungo giro.
Nessuna forza potrebbe distoglierli dall'adempimento del «voto». Alla statua rivolgono invocazioni come a persona vivente e la città domani risuonerà di un unico grido di fede. In ogni quartiere fuochi d'artifizio e illuminazione straordinaria. Nemmeno negli anni fortunosi del dopoguerra questo singolare entusiasmo si intiepidì. Oggi nel clima nuovo è ancor più vivo. Come negli anni lontani il popolo acese, che è di stirpe guerriera, trova che la sua anima intrepida ha qualche cosa di comune con quella del soldato romano che cercò sua morte per il più alto ideale di amore.
(da: Il Popolo di Sicilia, 20 Gennaio 1933)